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Dalla SERIE D alla SERIE A ||| La PRIMA intervista di Andrea CAMBIASO

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Se mi chiedessero «Cuchu, ma ripartiresti altre cento volte dalla Serie D?», la risposta sarebbe sempre e solo «sì». Tornerei tutta la vita sui campi in terra sui quali andavo a giocare con l’Albissola. Quando sento i miei compagni lamentarsi del manto erboso non in perfette condizioni qui in Serie A, ripenso a quelle fasce d’argilla sulle quali correvo, oppure al vento che avvolgeva il ‘Bacigalupo’ di Savona e rendeva incontrollabile il pallone. E penso che questo sia il paradiso. Il soprannome «Cuchu» è nato proprio in quegli anni. Quante volte hanno sbagliato a chiamarmi in vita mia… «CAMBIASSO! CAMBIASSO!». Certo, poteva andarmi peggio. Magari mi chiamavo come uno scarso. La prima volta avevo 17 anni, andai tra i dilettanti con una paura immensa di non rivedere mai più il mio Genoa. Dopo 9 anni con il borsone della squadra del cuore, andare a giro con altri colori non è stato facile. Specialmente se devi partire dal punto più basso. Uscire dal nido, dalla zona di comfort. Mettere da parte il sogno. Non mi ritenevano pronto per la Primavera e non ci pensai un attimo: «Andre, basta che non ti fermi». Se incontrassi per strada quel me stesso di 4 anni fa, gli direi che è stata la scelta giusta. Fino a quel momento, ad Albissola ci ero andato solo in vacanza. Al primo allenamento arrivai direttamente dalla spiaggia. Ero spaesato, fu una bella botta misurarmi con una nuova realtà. Sentii subito le martellate dei contrasti, erano diverse. L’intensità e la cattiveria agonistica erano senza precedenti. Ero timido e i miei compagni giuravano di avermi sentito parlare solamente durante il girone di ritorno. Pensavano che avessi perso la lingua, probabilmente. Capii che giocare a calcio era un’altra cosa, che ero tecnicamente bravo ma dovevo svegliarmi. Dovevo crescere, come tutti d’altronde a quell’età. Non erano tanto i piedi, quanto la testa. Avevo bisogno di diventare uomo prima degli altri. Anzi, diciamo che dovevo essere fin da subito un ragazzo adulto. C’era chi studiava lingue, chi consegnava le pizze. E poi c’ero io che sognavo di diventare un calciatore. Quello che ho capito è che più scendi di categoria, più la passione per il calcio è forte e smisurata. Certo, quando volevo allenarmi di più, quelli che venivano da un’intera giornata di lavoro mi maledicevano al termine di un’ora e mezzo di seduta tra corsa e tattica. E avevano ragione. Quando sei nel settore giovanile non ti rendi conto di cosa siano realmente la fatica, le partite, i momenti topici e il valore delle situazioni. In Serie D c’erano giocatori con 15 anni di carriera alle spalle. Si fanno il mazzo durante la settimana e la domenica non vogliono perdere per niente al mondo. Nello spogliatoio ero il ragazzino, mi mettevano spesso nel mezzo ma le prendevo con simpatia. Due anni fa ho letto un’intervista di Andrea Cistana, arrivato in Serie A e in Nazionale grazie al suo Brescia. Anche lui era sceso in D, al Ciliverghe, e disse che rifarebbe quella scelta senza se e senza ma. Sono d’accordo. Ti rapporti con persone che studiano e fanno altro, usano il calcio come hobby. Giochi con i grandi, superi tanti step che la Primavera non ti propone. Potevo giocare 3 minuti, ma il martedì ripartivo a tutto fuoco. Correvo, correvo tanto. Mi piace farlo ancora: se un compagno mi vede dare il massimo, so di poter essere d’ispirazione e farlo andare più forte. Ad Alessandria, in Serie C, avevo 18 anni, e una serenità addosso fuori dal comune. Se fossi andato in prestito per la prima volta intorno ai 19 anni, adesso non sarei qui. Non sarei stato così sfacciato. Che poi, sfacciato: pensate che non ho ancora chiesto neanche una maglia da scambiare a fine partita, sono troppo timido. Ho giocato poche partite in Serie A, penso: «Ma chi la vuole la mia maglia…». Aspetterò che qualcuno venga da me. Anche se quella di Dybala non mi dispiacerebbe, per anni ho fatto il suo ruolo ed è un modello per me. Adesso nello spogliatoio ho Goran Pandev e Mimmo Criscito, è pazzesco essere nella
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Se mi chiedessero «Cuchu, ma ripartiresti altre cento volte dalla Serie D?», la risposta sarebbe sempre e solo «sì». Tornerei tutta la vita sui campi in terra sui quali andavo a giocare con l’Albissola. Quando sento i miei compagni lamentarsi del manto erboso non in perfette condizioni qui in Serie A, ripenso a quelle fasce d’argilla sulle quali correvo, oppure al vento che avvolgeva il ‘Bacigalupo’ di Savona e rendeva incontrollabile il pallone. E penso che questo sia il paradiso. Il soprannome «Cuchu» è nato proprio in quegli anni. Quante volte hanno sbagliato a chiamarmi in vita mia… «CAMBIASSO! CAMBIASSO!». Certo, poteva andarmi peggio. Magari mi chiamavo come uno scarso. La prima volta avevo 17 anni, andai tra i dilettanti con una paura immensa di non rivedere mai più il mio Genoa. Dopo 9 anni con il borsone della squadra del cuore, andare a giro con altri colori non è stato facile. Specialmente se devi partire dal punto più basso. Uscire dal nido, dalla zona di comfort. Mettere da parte il sogno. Non mi ritenevano pronto per la Primavera e non ci pensai un attimo: «Andre, basta che non ti fermi». Se incontrassi per strada quel me stesso di 4 anni fa, gli direi che è stata la scelta giusta. Fino a quel momento, ad Albissola ci ero andato solo in vacanza. Al primo allenamento arrivai direttamente dalla spiaggia. Ero spaesato, fu una bella botta misurarmi con una nuova realtà. Sentii subito le martellate dei contrasti, erano diverse. L’intensità e la cattiveria agonistica erano senza precedenti. Ero timido e i miei compagni giuravano di avermi sentito parlare solamente durante il girone di ritorno. Pensavano che avessi perso la lingua, probabilmente. Capii che giocare a calcio era un’altra cosa, che ero tecnicamente bravo ma dovevo svegliarmi. Dovevo crescere, come tutti d’altronde a quell’età. Non erano tanto i piedi, quanto la testa. Avevo bisogno di diventare uomo prima degli altri. Anzi, diciamo che dovevo essere fin da subito un ragazzo adulto. C’era chi studiava lingue, chi consegnava le pizze. E poi c’ero io che sognavo di diventare un calciatore. Quello che ho capito è che più scendi di categoria, più la passione per il calcio è forte e smisurata. Certo, quando volevo allenarmi di più, quelli che venivano da un’intera giornata di lavoro mi maledicevano al termine di un’ora e mezzo di seduta tra corsa e tattica. E avevano ragione. Quando sei nel settore giovanile non ti rendi conto di cosa siano realmente la fatica, le partite, i momenti topici e il valore delle situazioni. In Serie D c’erano giocatori con 15 anni di carriera alle spalle. Si fanno il mazzo durante la settimana e la domenica non vogliono perdere per niente al mondo. Nello spogliatoio ero il ragazzino, mi mettevano spesso nel mezzo ma le prendevo con simpatia. Due anni fa ho letto un’intervista di Andrea Cistana, arrivato in Serie A e in Nazionale grazie al suo Brescia. Anche lui era sceso in D, al Ciliverghe, e disse che rifarebbe quella scelta senza se e senza ma. Sono d’accordo. Ti rapporti con persone che studiano e fanno altro, usano il calcio come hobby. Giochi con i grandi, superi tanti step che la Primavera non ti propone. Potevo giocare 3 minuti, ma il martedì ripartivo a tutto fuoco. Correvo, correvo tanto. Mi piace farlo ancora: se un compagno mi vede dare il massimo, so di poter essere d’ispirazione e farlo andare più forte. Ad Alessandria, in Serie C, avevo 18 anni, e una serenità addosso fuori dal comune. Se fossi andato in prestito per la prima volta intorno ai 19 anni, adesso non sarei qui. Non sarei stato così sfacciato. Che poi, sfacciato: pensate che non ho ancora chiesto neanche una maglia da scambiare a fine partita, sono troppo timido. Ho giocato poche partite in Serie A, penso: «Ma chi la vuole la mia maglia…». Aspetterò che qualcuno venga da me. Anche se quella di Dybala non mi dispiacerebbe, per anni ho fatto il suo ruolo ed è un modello per me. Adesso nello spogliatoio ho Goran Pandev e Mimmo Criscito, è pazzesco essere nella
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