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IL SOLDATO SENZA NOME. IL VIAGGIO DEL MILITE IGNOTO NELL’ITALIA DEL 1921. Marco Mondini alla Maratona di Lettura di Feltre

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Basilica di Aquileia, mattina del 28 ottobre 1921. Davanti all’altare sono allineate undici bare identiche coperte dal tricolore e da un semplice elmetto. Contengono i resti di altrettanti soldati italiani non identificati, ritrovati sui vecchi campi di battaglia della Grande guerra ed esumati nelle settimane precedenti. Davanti a loro cammina Maria Bergamas. È la madre di un volontario irredento, Antonio, morto in battaglia con l’uniforme italiana nel 1916, le cui spoglie non sono più state ritrovate. Dovrà scegliere una sola di queste salme. Chi ha assistito alla scena la ricorda mentre si trascina a fatica, trattenendo il respiro, fino ad arrivare di fronte alla penultima bara: poi «chiamando per nome il suo figliolo, cadde prostrata e ansimante in ginocchio, abbracciando con passione quel feretro. Il rito era compiuto». Il rito è quello del Milite Ignoto. La salma prescelta verrà caricata su un treno speciale, riccamente adornato e vegliato giorno e notte, che partirà per un lento viaggio alla volta di Roma, attraverso stazioni grandi e piccole, da Conegliano a Venezia, da Bologna a Firenze, talvolta a passo d’uomo, sfilando tra ali di folla silenziosa assiepata lungo i binari, spesso fermandosi per permettere a comitive di veterani, mutilati, vedove, orfani, di tributare il proprio omaggio, di salutare la salma, di toccare il vagone che la trasportava. Non si era mai visto nulla del genere nella storia dell’Italia unita, mai nessun simbolo, mai nessun eroe aveva incarnato così profondamente le emozioni degli italiani. Ma quel caduto senza nome avrebbe potuto essere chiunque. E tutti avrebbero potuto riconoscervi il padre, il fratello, il marito, il figlio perduto di cui molte famiglie non avevano più avuto alcuna notizia. Alla fine della guerra, l’esercito italiano contava 200mila tra dispersi e vittime non identificate. Una distesa di morti che lasciava dietro di sé una moltitudine di vivi in lutto privi di una tomba su cui piangere e condannati a un’attesa angosciante e potenzialmente infinita. Non c’è da stupirsi se centinaia di migliaia di cittadini si ammassarono sui binari e nelle stazioni fin dalla mattina del 29 ottobre, né se una folla imponente occupò ogni angolo libero tra piazza Venezia e le vie adiacenti al Vittoriano per assistere alla fine del suo viaggio. Fu la partecipazione spontanea delle madri in nero, che pretendevano di aprire la bara per riconoscere i resti del figlio caduto, e delle vedove che alzavano figli di pochi anni verso il feretro dicendo «bacia il papà». Così, raccontare quel viaggio è come raccontare il lutto, le attese, ma anche l’orgoglio e la memoria dell’Italia inquieta di cento anni fa.

Incontro registrato il 20 maggio 2022 a Feltre ad apertura della Maratona di Lettura dedicata ad Alessandro Barbero.

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Basilica di Aquileia, mattina del 28 ottobre 1921. Davanti all’altare sono allineate undici bare identiche coperte dal tricolore e da un semplice elmetto. Contengono i resti di altrettanti soldati italiani non identificati, ritrovati sui vecchi campi di battaglia della Grande guerra ed esumati nelle settimane precedenti. Davanti a loro cammina Maria Bergamas. È la madre di un volontario irredento, Antonio, morto in battaglia con l’uniforme italiana nel 1916, le cui spoglie non sono più state ritrovate. Dovrà scegliere una sola di queste salme. Chi ha assistito alla scena la ricorda mentre si trascina a fatica, trattenendo il respiro, fino ad arrivare di fronte alla penultima bara: poi «chiamando per nome il suo figliolo, cadde prostrata e ansimante in ginocchio, abbracciando con passione quel feretro. Il rito era compiuto». Il rito è quello del Milite Ignoto. La salma prescelta verrà caricata su un treno speciale, riccamente adornato e vegliato giorno e notte, che partirà per un lento viaggio alla volta di Roma, attraverso stazioni grandi e piccole, da Conegliano a Venezia, da Bologna a Firenze, talvolta a passo d’uomo, sfilando tra ali di folla silenziosa assiepata lungo i binari, spesso fermandosi per permettere a comitive di veterani, mutilati, vedove, orfani, di tributare il proprio omaggio, di salutare la salma, di toccare il vagone che la trasportava. Non si era mai visto nulla del genere nella storia dell’Italia unita, mai nessun simbolo, mai nessun eroe aveva incarnato così profondamente le emozioni degli italiani. Ma quel caduto senza nome avrebbe potuto essere chiunque. E tutti avrebbero potuto riconoscervi il padre, il fratello, il marito, il figlio perduto di cui molte famiglie non avevano più avuto alcuna notizia. Alla fine della guerra, l’esercito italiano contava 200mila tra dispersi e vittime non identificate. Una distesa di morti che lasciava dietro di sé una moltitudine di vivi in lutto privi di una tomba su cui piangere e condannati a un’attesa angosciante e potenzialmente infinita. Non c’è da stupirsi se centinaia di migliaia di cittadini si ammassarono sui binari e nelle stazioni fin dalla mattina del 29 ottobre, né se una folla imponente occupò ogni angolo libero tra piazza Venezia e le vie adiacenti al Vittoriano per assistere alla fine del suo viaggio. Fu la partecipazione spontanea delle madri in nero, che pretendevano di aprire la bara per riconoscere i resti del figlio caduto, e delle vedove che alzavano figli di pochi anni verso il feretro dicendo «bacia il papà». Così, raccontare quel viaggio è come raccontare il lutto, le attese, ma anche l’orgoglio e la memoria dell’Italia inquieta di cento anni fa.

Incontro registrato il 20 maggio 2022 a Feltre ad apertura della Maratona di Lettura dedicata ad Alessandro Barbero.

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