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Il respiro del ciclo economico mondiale - EPT #59

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Anche noi, qui ad “Economia per tutti”, abbiamo i nostri anni del cuore e sono i, per noi mitici, Nineties. Come per tutti, il criterio fondamentale di scelta, per nulla obiettivo s’intende, è quello che porta a ricordare come età dell’oro quella della propria gioventù, con la sua musica, i suoi film, i suoi rituali identitari collettivi. Ma, a ben vedere, c’è anche una ragione squisitamente economica che ci porta a prediligere quel decennio.

Gli anni Novanta infatti, a prescindere dalla tumultuose e anche drammatiche vicende italiane, furono anni in cui l’ideale polmone del ciclo economico globale dovette dilatarsi a dismisura per riempirsi di tutta l’aria nuova allora prepotentemente entrata in circolo: era appena finita una guerra fredda quanto opprimente, erano caduti tutti i muri, le società aperte dominavano, il dividendo della pace si traduceva in vorticosa mobilità di beni, persone, capitali, il mondo si affermava come perimetro, cornice, campo da gioco delle nostre esistenze. Era la globalizzazione, bellezza, e con essa la crescita.

Il ricordo di quegli anni sta facendo capolino in queste settimane. Un ricordo accompagnato dal tarlo della nostalgia, certo, ma ancor più dall’amarezza, e persino dalla rabbia, nel confronto con il mondo nel quale siamo ripiombati dal fatidico 24 febbraio. Perché questa guerra è odiosa non solo perché guerra, ingiusta e tragica, ma anche perché terribilmente vecchia, impregnata com’è dell’odore stantio di cose non antiche, ma solo irrimediabilmente obsolete: aspirazioni neoimperiali, revanscismi, sfere di influenza.
Un clima asfittico, ammorbante. Esattamente come i cascami ideologici di opposto colore che congiurano nel determinare l’ennesima anomalia italiana nel panorama internazionale: il diffuso giustificazionismo, sebbene non certo a livello governativo, verso l’invasore Putin. Un clima che non può, per giunta dopo due anni di pandemia, non contagiare l’economia.

La conversazione inclinata di questa settimana è allora dedicata al racconto e all’analisi di come il polmone del ciclo economico, al contrario degli anni Novanta, oggi si svuoti, si rimpicciolisca, incarni il respiro corto e affannoso dell’attuale congiuntura bellica. Il respiro corto della sfinge cinese, interessata esclusivamente a fare affari, del tutto incurante della natura dei suoi interlocutori, ossessionata solo dalla loro stabilità, poco importa se trattasi della stabilità mortifera di autocrazie, peraltro avvertite come affini; il respiro corto di un commercio internazionale in cui materie prime cruciali ( dal grano al petrolio, dal gas al neon) non circolano più, non si riversano più sui mercati mondiali innescando, in un colossale #mancalaroba, cortocircuiti di vario genere; il respiro corto della politica monetaria di banche centrali che hanno apparentemente inserito il pilota automatico per domare l’inflazione secondo protocolli tradizionali, incuranti della peculiare eziologia dell’inflazione da guerra che è basilarmente connessa al calo della produzione.
Di questi ed altri affanni vi raccontiamo nella puntata in onda. Ancora una volta, temi che avremmo preferito non affrontare. Ma del resto, per chi coltiva l’ambizione di essere una piccola bussola nella navigazione economica, la negatività è sfidante: stimola a decifrare meglio le situazioni, a cercare un modus vivendi con la situazione, a prendere le misure alla new normality per quanto ostica sia.

web: http://www.PianoInclinato.it

email: redazione@pianoinclinato.it

Newsletter EPT: https://tinyletter.com/PianoInclinato

musica di Enrico Marani; Sigla d'apertura "Change the world" di E.Clapton; sigla di chiusura by K. MacLeod Lic.: http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/

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Gli anni Novanta infatti, a prescindere dalla tumultuose e anche drammatiche vicende italiane, furono anni in cui l’ideale polmone del ciclo economico globale dovette dilatarsi a dismisura per riempirsi di tutta l’aria nuova allora prepotentemente entrata in circolo: era appena finita una guerra fredda quanto opprimente, erano caduti tutti i muri, le società aperte dominavano, il dividendo della pace si traduceva in vorticosa mobilità di beni, persone, capitali, il mondo si affermava come perimetro, cornice, campo da gioco delle nostre esistenze. Era la globalizzazione, bellezza, e con essa la crescita.

Il ricordo di quegli anni sta facendo capolino in queste settimane. Un ricordo accompagnato dal tarlo della nostalgia, certo, ma ancor più dall’amarezza, e persino dalla rabbia, nel confronto con il mondo nel quale siamo ripiombati dal fatidico 24 febbraio. Perché questa guerra è odiosa non solo perché guerra, ingiusta e tragica, ma anche perché terribilmente vecchia, impregnata com’è dell’odore stantio di cose non antiche, ma solo irrimediabilmente obsolete: aspirazioni neoimperiali, revanscismi, sfere di influenza.
Un clima asfittico, ammorbante. Esattamente come i cascami ideologici di opposto colore che congiurano nel determinare l’ennesima anomalia italiana nel panorama internazionale: il diffuso giustificazionismo, sebbene non certo a livello governativo, verso l’invasore Putin. Un clima che non può, per giunta dopo due anni di pandemia, non contagiare l’economia.

La conversazione inclinata di questa settimana è allora dedicata al racconto e all’analisi di come il polmone del ciclo economico, al contrario degli anni Novanta, oggi si svuoti, si rimpicciolisca, incarni il respiro corto e affannoso dell’attuale congiuntura bellica. Il respiro corto della sfinge cinese, interessata esclusivamente a fare affari, del tutto incurante della natura dei suoi interlocutori, ossessionata solo dalla loro stabilità, poco importa se trattasi della stabilità mortifera di autocrazie, peraltro avvertite come affini; il respiro corto di un commercio internazionale in cui materie prime cruciali ( dal grano al petrolio, dal gas al neon) non circolano più, non si riversano più sui mercati mondiali innescando, in un colossale #mancalaroba, cortocircuiti di vario genere; il respiro corto della politica monetaria di banche centrali che hanno apparentemente inserito il pilota automatico per domare l’inflazione secondo protocolli tradizionali, incuranti della peculiare eziologia dell’inflazione da guerra che è basilarmente connessa al calo della produzione.
Di questi ed altri affanni vi raccontiamo nella puntata in onda. Ancora una volta, temi che avremmo preferito non affrontare. Ma del resto, per chi coltiva l’ambizione di essere una piccola bussola nella navigazione economica, la negatività è sfidante: stimola a decifrare meglio le situazioni, a cercare un modus vivendi con la situazione, a prendere le misure alla new normality per quanto ostica sia.

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